Femminicidi: non vogliamo commemorazioni ma un cambiamento

di Luisa Cecarini

Giovedì scorso si è tenuta una fiaccolata per commemorare l’ultima vittima di femminicidio: Ana Cristina Duarte. Aveva 39 anni, era originaria del Brasile, ma viveva in un tranquillo borgo sulle colline marchigiane. In uno di quei paesi dove sembra che non accada mai nulla, un uomo italiano ha scelto di accoltellare sua moglie, davanti ai loro tre figli.

Ancora una volta, cittadini e cittadine sensibili al tema, associazioni impegnate nella lotta contro la violenza sulle donne e rappresentanti delle istituzioni hanno sfilato con fiaccole in mano, leggendo l’elenco delle donne uccise dall’inizio dell’anno. Ad oggi, sono 88: un numero che, tuttavia, non racconta le storie di violenza e maltrattamenti che quelle vittime senza nome hanno subito prima di essere ammazzate. Questo numero non ci parla degli orfani, che porteranno le cicatrici di quella violenza per il resto della loro vita.

Nella retorica che accompagna questi momenti, si fa spesso riferimento all’educazione al rispetto e all’affettività. Peccato, però, che molti dei sindaci di centrodestra che la menzionano in queste occasioni non facciano poi nulla di concreto per promuoverla. Anzi, sono spesso i primi a scagliarsi contro la fantomatica “ideologia gender”, un concetto che ancora nessuno ha chiarito.

Da un lato, è fondamentale promuovere l’educazione al rispetto e all’affettività tra i giovani e i giovanissimi. Dall’altro, è altrettanto cruciale finanziare adeguatamente i Centri Antiviolenza, che non possono continuare a operare nella precarietà. Dobbiamo sostenere l’indipendenza economica delle donne, aiutandole a trovare casa e lavoro. Dobbiamo parlare di equità di genere e di lotta al patriarcato.

Che il fenomeno dei femminicidi sia un problema culturale e strutturale sembra ormai evidente. È passato quasi un anno da una delle più grandi manifestazioni degli ultimi tempi, quella del 25 novembre scorso, scaturita dall’omicidio di Giulia Cecchettin per mano del suo ex fidanzato. Quella piazza decise di “fare rumore”, perché come donne siamo stanche di rimanere in silenzio, di essere ricordate solo da morte, di sfilare senza dar voce a una profonda ingiustizia e a un sistema che non ci protegge, ma che troppo spesso dà alibi ai nostri aguzzini.

Un altro 25 novembre è ormai alle porte. L’augurio è che questa volta non si tratti solo di una commemorazione, ma di un reale passo avanti verso un cambiamento.