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Quale sinistra? Il futuro delle nostre radici

di bellaciaoblog

Da Firenze un interessante documento dal titolo suggestivo “La Tradizione Democratica”. La riflessione è molto ampia e affronta la debolezza che vive la democrazia in tutto il mondo. L’analisi e’ attenta e precisa nell’individuazione delle criticità e nei pericoli che incorrono le nostre società anche e soprattutto sul versante dei diritti e delle libertà. In questo contesto appare smarrito e residuale il ruolo della politica ma anche delle grandi centrali istituzionali, in primis l’Europa. Cosa fare allora? Come la sinistra riformista e democratica, in uno sforzo globale può intervenire? E in tutto questo quale missione si deve dare il Partito Democratico? Il documento verrà presentato a Firenze, venerdì 18 ottobre alle ore 18, presso il circolo Arci di Piazza dei Ciompi 11. All’incontro e’ prevista la presenza del capo delegazione PD al Parlamento Europeo e di altri dirigenti e parlamentari Dem. Intanto “BellaCiao” con l’intento di allargare la discussione, pubblica il documento ed e’ pronta ad ospitare altri contributi.
Di seguito il documento

Nel disordine violento e sanguinoso che sta attraversando il mondo, le democrazie sono assalite da più fronti e vivono una crisi profonda.

Sono assalite dalle destre reazionarie che all’interno delle democrazie spostano l’asse politico istituzionale verso modelli autoritari e all’esterno da un blocco autocratico mondiale che avanza e costruisce un suo spazio di egemonia.

Sono indebolite dallo strapotere dei grandi centri di interesse economico nella politica occidentale, dal capitalismo clientelare che ha progressivamente privato la politica del suo primato in favore di lex mercatorie sottratte ad ogni controllo. 

È il momento più grave di crisi di un modello di globalizzazione fondato sulla pretesa dell’unipolarità e dell’Occidente democratico che quel modello lo ha fondato e ora lo vede ritorcersi contro le proprie democrazie.

Questa ritorsione è evidente nella perdita di primato della politica, che ha ridotto notevolmente il suo impatto sulla vita delle persone ed è percepita come lontana e asservita ai grandi interessi economici. L’idea apparentemente imperante per cui la lotta per migliori condizioni di vita o è individuale, secondo la competizione neoliberale, o è tribale e corporativa, secondo le destre reazionarie è il frutto avvelenato di questo processo.

La miope ricerca sistematizzata e globale di sempre nuove fonti di ricchezza da estrarre dimostra l’incompatibilità del modello di produzione attuale con un Pianeta sano e un ambiente salubre. Il mondo si ostina a dividersi nelle rivendicazioni delle sfere di influenza, quando servirebbero invece forti cooperazione e collaborazione globali per rispondere al cambiamento climatico. 

Tutto questo accade mentre sorge una nuova rivoluzione tecnologica, che anche quando non dovesse stravolgere completamente il modello di produzione e di organizzazione del lavoro, costituirà senz’altro un enorme balzo in avanti rispetto all’automazione avutasi finora nei processi produttivi, ridiscutendo il ruolo dell’elemento umano in passaggi nodali della produzione. Elemento umano che viene spersonalizzato e violentato nelle autocrazie, ma che anche nelle democrazie occidentali soffre, trovando nella precarietà esistenziale di larga parte della popolazione le ragioni di una crisi demografica che minaccia la stessa tenuta sociale futura.

Di fronte a questa crisi l’Europa appare smarrita nei suoi scopi, col fiato sospeso in attesa delle elezioni americane e incapace di rappresentarsi sul piano internazionale in modo autonomo, perché ancora mancante delle strutture e della sostanza politica necessaria a rappresentare il modello di un Occidente rinnovato.

La proposta della destra sovranista è sotto gli occhi di tutti: la fortezza Europa che alza il ponte levatoio e imita le autocrazie; come è evidente lo spaesamento profondo dei liberali che questa crisi l’hanno prodotta, ma la prospettiva sul mondo del socialismo europeo quale è?

Se l’argine alla destra autoritaria serve solo a difendere un esistente che è già ingiusto, precario, diseguale è evidente che non sia abbastanza. 

Per battere chi vuole la trasformazione reazionaria serve una visione di progresso trasformativa dell’esistente, che proponga un nuovo patto sociale, una risposta di sinistra a questa crisi. 

Quando tutto sembra perduto, occorre ricominciare con calma dall’inizio e allora, quale è il ruolo politico del lavoro secondo noi, secondo la sinistra? Perché se non si risponde più a questa domanda, non si comprende più se siamo per il salario minimo per umana compassione, per remunerare di più un capitale umano diverso per ognuno, per redistribuire un valore aggiunto a valle del processo di produzione, oppure perché c’è un tempo della vita della persona che lavora da remunerare e serve una soglia minima per difendere la dignità di esistenza di quella persona. 

Se con la Rivoluzione Francese la borghesia progressiva rivendicò il suo ruolo nella produzione rispetto al parassitario Ancient Regime, il movimento dei lavoratori con le lotte politiche e sindacali del secolo scorso rivendicò, in termini di maggiori diritti e migliori condizioni di vita, il proprio ruolo e la propria quota di valore nella produzione capitalista.

La rivendicazione organizzata di quei diritti aveva a riferimento un modello di individuo identificato nella società e nel suo ruolo nella produzione: l’operaio, maschio, maturo, cittadino del paese dove risiede, sindacalizzato e con contratto di lavoro dipendente, che crea il valore con le mani. 

La globalizzazione produttiva prima e finanziaria poi, con le delocalizzazioni e disgregazione del lavoro e delle sue tutele che ne sono effetto, hanno messo in crisi l’univocità di quell’antico e glorioso paradigma di rappresentanza, che oggi è lontanissimo dall’essere esaustivo di un esistente che invece è disomogeneo sul piano umano e molto più precario. Per costruire l’alternativa progressista e rispondere alla crisi democratica occorre elaborare un nuovo paradigma di rappresentanza, con una lettura politica condivisa e riconciliata di questi nodi fondamentali.

È nel momento più grave della crisi democratica che il Partito Democratico deve ritrovare le ragioni della sua fondazione e darsi un ruolo da esercitare nella storia dei prossimi anni. 

Non fu fondato solo per federare culture diverse in una casa comune, ma per trovare tra quelle culture una sintesi profonda che fondasse la cultura politica progressista dell’Italia del domani, depurata di tutte le divisioni del glorioso e gravoso passato. 

La casa del riformismo, che non significa rinuncia, né difesa dell’esistente, moderatismo o centrismo, significa invece trasformare la società con gli strumenti della democrazia per renderla più giusta, con i diritti di tutti realizzati pienamente. 

I nostri tempi rendono evidente quale sia la categoria politica che deve fondare la fusione a caldo tra le grandi culture fondative che abitano quella casa: la cultura cristiana sociale, quella social-comunista e le altre del progresso che scrissero la Costituzione: è la persona, categoria politica fondativa e peculiare dell’Europa e dell’Occidente, che precede quella del lavoratore e sulla cui possibilità di accedere a diritti e risorse della vita si misura la sostanza della democrazia. È l’unione di quelle culture intorno a questa cornice valoriale e politica che costituisce la tradizione democratica di questo Paese. 

La tradizione è di per sé il frutto di un’operazione selettiva, in cui si sceglie cosa ricordare, e tradurre nel futuro, e cosa no. È urgente per la comunità progressista la necessità di sanare le troppe ferite del più o meno recente passato e guardare al futuro con una prospettiva politica e storica rinnovate, con generosità verso chi in passato ha sostenuto soluzioni che hanno palesato tutta la loro inadeguatezza, economica, politica, storica e valoriale ma che nel momento in cui furono sostenute e adottate vedevano un contesto nazionale e internazionale ancora non maturo per una nuova lettura da sinistra, condivisa e strutturata, del presente momento storico.

L’elemento profondo che sta consumando le nostre democrazie, che è principale causa e più pericoloso effetto della crisi, è una distanza esistenziale, di due mondi che ormai vanno a due velocità e rotazioni diverse.

È la differenza tra la vita di chi vive nella necessità, perché necessita della mano pubblica per vedersi garantiti beni e servizi relativi a diritti costituzionali fondamentali e quella parte di popolazione, che include la classe dirigente, che dispone invece di risorse proprie tali da garantirsi in maniera del tutto autonoma quei diritti.

Individuare il trait d’union di quelle fasce di popolazione che vivono la necessità è lo scopo primario di una riflessione di Sinistra sul mondo di oggi e l’elemento fondamentale di un nuovo patto sociale che includa quella popolazione ora esclusa. 

L’evoluzione globale della dinamica di produzione e la destrutturazione dei rapporti di lavoro rendono impossibile individuare il trait d’union nel ruolo nella produzione, come era secondo la soggettività operaia novecentesca. Il mondo di necessità a cui deve rivolgersi il nuovo patto sociale è oggi molto più ampio del lavoro dipendente, esso riguarda lavoratori italiani e stranieri, giovani e donne precari e in part-time involontario, pensionati, disoccupati, coinvolge partite iva vere e non, artigiani, piccoli imprenditori il cui apporto di lavoro all’impresa è superiore a quello di capitale. 

Spaccati della nostra società che la narrazione dominante pone spesso in conflitto per litigarsi le briciole, oscurando il filo rosso essenziale che li tiene insieme: la destinazione qualitativa della loro spesa privata in beni e servizi legati al soddisfacimento di bisogni essenziali della persona. Spendono tutto o quasi tutto ciò che hanno ogni mese semplicemente per vivere. 

È questa soggettività della spesa che può fondare il paradigma di rappresentanza del nuovo patto sociale. 

La progressività del sistema fiscale fu voluta dai padri costituenti, al comma 2 dell’articolo 53, che la pensarono come fondamento della nuova Italia equa, libera e democratica, che buttasse al macero il sistema fiscale regressivo fascista. Al primo comma dello stesso articolo essi previdero però un altro principio, la capacità contributiva, che precede quello di progressività. Capacità contributiva vuol dire che non si possono pagare imposte sui redditi necessari ai bisogni della vita, perché questi servono ad assolvere esigenze fondamentali della persona, questi redditi per tale ragione non palesano quindi attitudine a contribuire, ossia non hanno capacità contributiva. 

La previsione di una significativa soglia di esenzione fiscale sui redditi personali annui, eguale per tutti indipendentemente dalla fonte di reddito, potrebbe essere da questa prospettiva il fondamento di una nuova progressività. Questa, da un lato, dovrà riguardare i grandi trasferimenti generazionali di ricchezza, stralciare le flat tax e recuperare nel suo alveo le rendite che scontano regimi agevolati e, d’altro lato, articolarsi su più livelli, con una soglia di esenzione fiscale uguale per tutti, sul livello dei redditi necessari a vivere, combinata con le aliquote graduate. 

Il rafforzamento del reddito di cittadinanza unitamente ad una politica fiscale progressiva su più livelli permetterebbe di rispondere alla necessità di risorse per i beni della vita di chi vive in stato di necessità. 

Ciò in cui il neoliberismo ha pareggiato le esperienze totalitarie è proprio la spersonalizzazione delle relazioni sociali ed economiche, perché pari con i totalitarismi nel porre la persona in una posizione subordinata rispetto ad un principio ordinativo superiore e che regge e stabilisce una gerarchia tra le vite.

Per il fronte progressista figlio della tradizione democratica, invece, non esiste alcun principio ordinativo superiore alla persona come centro di diritti e alla sua piena autodeterminazione sostanziale nella vita, nel lavoro, nelle forme di aggregazione e rappresentanza previste dalla Costituzione. 

Questa è anche la radice profonda del nostro antifascismo: contro chi brama un’umanità di fazioni in guerra, tutte convinte di essere l’unica davvero degna di vivere, noi crediamo nella democrazia, che si fonda sull’assunto opposto, ossia che tutte le vite sono importanti e hanno pari dignità di essere vissute.  

La ricerca di una visione di emancipazione collettiva, adatta ai tempi di oggi e fondata sulla condivisione materiale delle condizioni di vita appare sempre più necessaria e non rimandabile per costruire una via d’uscita da Sinistra alla crisi.