di Mattia Ciappi
L’industria automobilistica italiana, da sempre uno dei pilastri dell’economia nazionale e simbolo di innovazione e competenza tecnica, vive oggi una crisi profonda che non può essere ridotta a un semplice momento di difficoltà congiunturale. La trasformazione in atto è epocale e richiede un ripensamento radicale del modello produttivo e delle politiche industriali del Paese. Le difficoltà che colossi come Stellantis stanno affrontando, dalla competizione globale con i nuovi attori emergenti, in particolare cinesi, alla lentezza con cui è stata abbracciata la transizione verso l’elettrificazione, rappresentano un monito chiaro: senza un cambiamento deciso, l’Italia rischia di perdere non solo un settore strategico, ma anche decine di migliaia di posti di lavoro e un patrimonio di conoscenze e competenze difficilmente recuperabile.
In un contesto europeo caratterizzato da obiettivi stringenti per la riduzione delle emissioni di CO₂ e da un calendario ambizioso che prevede la fine della vendita di auto a combustione interna entro il 2035, il rischio per il nostro Paese è quello di trovarsi schiacciato tra la necessità di adeguarsi alle nuove normative e l’incapacità di attrezzarsi per tempo. Il problema non è solo economico, ma sociale, perché i poli industriali italiani come Mirafiori e Melfi non sono semplici fabbriche: rappresentano comunità intere che vivono di quell’indotto e che vedrebbero cancellate le loro prospettive se il processo di transizione non venisse gestito con intelligenza e visione.
La risposta non può essere, come propone spesso la destra, un ritorno a logiche nazionalistiche o protezionistiche che, al di là degli slogan, non affrontano realmente i problemi strutturali dell’industria. Il settore automotive richiede investimenti massicci e una strategia capace di tenere insieme innovazione tecnologica, sostenibilità ambientale e tutela sociale. Mirafiori, per esempio, potrebbe diventare un centro di eccellenza per la produzione di batterie e veicoli elettrici, mentre Melfi potrebbe specializzarsi in tecnologie legate alla mobilità connessa, sviluppando competenze che proiettino l’Italia al centro della mobilità del futuro. Per farlo, però, è necessario un piano industriale serio, che sappia mobilitare risorse pubbliche e private, puntando su partnership strategiche tra le aziende automobilistiche, le istituzioni accademiche e le startup tecnologiche.
Un aspetto cruciale della transizione verso la mobilità sostenibile è rappresentato dalle infrastrutture, senza le quali la diffusione dei veicoli elettrici rischia di rimanere un obiettivo velleitario. L’Italia, ad oggi, è in ritardo nella costruzione di una rete di ricarica capillare ed efficiente, ma questa carenza rappresenta anche un’opportunità: investire in infrastrutture alimentate da energie rinnovabili potrebbe non solo favorire la transizione ecologica, ma anche creare occupazione e rilanciare l’economia. Accanto a questo, è fondamentale che il nostro Paese guardi oltre il tradizionale concetto di automotive, investendo in settori emergenti come i droni, le auto volanti e le tecnologie per le città intelligenti, trasformando la mobilità in un ecosistema sempre più interconnesso e sostenibile.
Come ha sottolineato Zingaretti, l’equivoco nazionalista di chi cavalca le paure senza proporre soluzioni concrete è una trappola pericolosa che rischia di paralizzare il Paese. La risposta non può essere quella di rallentare, ma di accelerare, investendo con decisione in innovazione e accompagnando i lavoratori in un percorso di riqualificazione che trasformi la transizione da minaccia a opportunità. Non basta limitarsi a salvaguardare i posti di lavoro esistenti: è necessario crearne di nuovi, anticipando le tendenze e puntando su quei settori che saranno centrali nella mobilità del futuro.
A livello europeo, l’Italia deve giocare un ruolo da protagonista, spingendo per un fondo comune dedicato alla transizione industriale e per politiche che favoriscano un coordinamento tra i paesi membri. La dimensione europea è fondamentale, non solo per affrontare le sfide globali, ma anche per garantire che il processo di innovazione non lasci indietro nessuno, né in termini sociali né in termini geografici. Non è un’utopia: altri Paesi, come la Germania, stanno già adottando modelli simili con risultati incoraggianti.
La crisi del settore automobilistico è senza dubbio una sfida complessa, ma anche un’opportunità per ripensare il nostro sistema industriale e riaffermare il ruolo dell’Italia come leader nell’innovazione e nella sostenibilità. L’automotive italiano non può e non deve diventare una vittima del cambiamento, ma un protagonista della mobilità del futuro. Perché ciò avvenga, però, è necessario il coraggio di investire, innovare e pensare in grande, tornando a mettere al centro non solo le imprese, ma anche i lavoratori e le comunità che da sempre rappresentano il cuore pulsante della nostra industria.