di Daniele Borioli
Perché continuare a chiedere a Meloni e ai suoi di condannare apertamente e senza reticenze il fascismo e le sue odierne manifestazioni in simboli e slogans ripresi direttamente dal “ventennio”? Perché ostinarsi a pretendere che dicano una bugia?
Non ha torto Gad Lerner, che apertamente si è posto (e ha posto ai presenti) questa domanda in occasione di una recente commemorazione dedicata ai giovani partigiani trucidati dai fascisti nel gennaio del 1945, a Casale Monferrato.
Probabilmente, i manipoli dediti al fascismo esibizionista, come quelli di recente andati in scena ad Acca Larentia, resteranno numericamente circoscritti. Ma sarebbe un errore pensare che le loro performances siano pezzi da mercatino dell’antiquariato. In realtà esse hanno la funzione di creare un clima, che apertamente rimette in gioco le regole del gioco democratico fissate dalla Costituzione.
Certo, la sostanza fascista non si ripresenterà con il manganello, l’olio di ricino e la violenza apertamente diretta verso gli avversari politici. Non è più il tempo. Ma per Meloni e La Russa, e per le coorti che si affidano al loro comando, rinnegare è impossibile: essendo diretto e saldissimo, sin dal simbolo, il cordone ombelicale che lega Fratelli d’Italia all’esperienza del MSI.
Per trovare le radici genetiche profonde di Fratelli d’Italia, bisogna tornare al Movimento Sociale e alla guida di Giorgio Almirante, che condusse quel partito postfascista ad essere ad essere una sorta di “fascismo in democrazia”: un partito antisistema che per lunghi anni ha accettato di giocare su due tavoli: quello delle regole democratiche e quello dei rapporti, più o meno coperti o espliciti, con la galassia dell’eversione nera.
Su quel ceppo, Giorgia Meloni ha innestato la nuova formazione politica, nata nel 2012 a chiusura e liquidazione dell’esperienza che aveva portato al superamento di Alleanza Nazionale, e alla confluenza di quel partito, guidato da Gianfranco Fini, nel Popolo della Libertà.
Non è superfluo richiamare il senso ideale e politico di quel passaggio. Gianfranco Fini, Alleanza Nazionale e la confluenza di quest’ultima nel Popolo della Libertà, segnano un percorso che, pur rimanendo connotato da non poche ambiguità, portò nel primo decennio del nuovo secolo la destra postfascista italiana a una revisione profonda della propria matrice genetica, allontanandola in maniera piuttosto netta dal solco nel quale sino ad allora si era mantenuta.
Al punto che le elezioni politiche del 2008 furono, e rimangono, le uniche nel corso della “seconda Repubblica” alle quali gli ex missini non abbiano con una formazione politica significativa recante nel simbolo la fiamma tricolore, lasciando il compito di rappresentare quel residuo di cultura postfascista alla molto minoritaria formazione di Daniela Santanché.
Il passaggio appena richiamato non è irrilevante: poiché rende plasticamente evidente come la stessa origine del partito che oggi detiene la golden share del governo sia esito dell’opzione che ha portato, sul terreno dei riferimenti culturali e ideali, a rinnegare il cammino di democratizzazione intrapreso da Gianfranco Fini e a riportare l’esperienza di quella componente della destra italiana nel solco storico del postfascismo.
Certo, non è da escludersi che la fiamma, tornata a illuminare sinistramente il simbolo, crei anche qualche imbarazzo a Giorgia Meloni, impegnata nel tentativo di accreditarsi di fronte all’opinione pubblica, interna e internazionale, quale leader di riferimento di una destra conservatrice democratica. E tuttavia, l’incertezza che ancora incombe sulla riuscita del tentativo la trattiene nell’alveo di quel nazionalismo sovranista che appare oggi il contenitore più adatto a custodire le pulsioni ideologiche native del suo partito.
Così, la reticenza senza pudore, che si reitera ad ogni occasione, tanto nella mai pronunciata condanna esplicita del fascismo del regime mussoliniano, quanto nell’ambiguo giudizio circa le vicende delle destre estremiste ed eversive nel secondo dopoguerra, è il marker più evidente di un legame che non può essere reciso.
Al tempo stesso, l’enfasi con cui vengono rigettate le pagine atroci e vergognose dell’antisemitismo serve allo scopo di segnare una cesura rispetto alla parte più indifendibile del passato. Ed è possibile, anzi probabile, che almeno per quanto riguarda questo capitolo il distanziamento dal fascismo storico e dal postfascismo sia anche sincero, ma non al punto da determinare la piena assunzione di un atto di cesura radicale.
D’altro canto, il bisogno di individuare un “nemico” sul quale scaricare le colpe delle difficoltà economiche e sociali, secondo una modalità comunemente adottata dalle destre nella ricerca del consenso, è ampiamente garantito nel nostro tempo dall’ossessione con la quale viene declinato il tema dei migranti dalle sponde dell’Africa.
La “sostituzione etnica”, che oggi secondo Lollobrigida insidierebbe la fragile gente italica, viene così a colmare il vuoto lasciato dall’abbandono dell’antisemitismo: agli ebrei si sostituiscono i musulmani. Senza un grande sforzo di fantasia, giacché si pesca pur sempre nello stesso mazzo delle religioni monoteiste.
Su questo versante, Fratelli d’Italia è purtroppo in cattiva compagnia: ha dalla sua la Lega, e una parte non piccola della pubblica opinione, che ha eletto la paura dei migranti come primaria ossessione, sulla quale scaricare le tensioni che derivano dai nodi irrisolti che stringono alla gola il futuro del nostro Paese.
C’è infine, ultima ma non per importanza, la questione istituzionale e costituzionale, che traccia, nettissimo, il solco dell’insidia di matrice postfascista incombente sul futuro della nostra democrazia.
A questo proposito, occorre una premessa: nessuna delle principali forze oggi al governo colloca le proprie radici identitarie nella Costituzione repubblicana. In misura diversa, le basi della democrazia rappresentativa sono utilizzate dalle formazioni della destra di governo come strumento di autodifesa nei frangenti in cui esse si trovano all’opposizione; mentre vengono trattate come un fastidioso intralcio nel momento in cui si esercita il governo.
Era così già con Berlusconi. Ma oggi lo schema si replica in maniera più determinata e direttamente rivolta allo scardinamento del sistema. Le riforme costituzionali che prevedono, da un lato l’introduzione dell’elezione diretta del premier, e dall’altro la scomposizione del quadro unitario dell’Italia, mediante l’autonomia differenziata, evidenziano un disegno compiutamente eversivo dell’impianto costituzionale vigente.
Nonostante tale disegno venga condotto nel rispetto formale delle regole costituzionali, appare in tutta la sua portata destrutturante il rischio, stavolta davvero concreto, del passaggio a una “seconda Repubblica”, questa volta davvero “altra” rispetto a quella consegnataci dalla Resistenza e dall’Assemblea costituente. Questa infausta prospettiva finirebbe, paradossalmente, per dare esito postumo ai propositi di Giorgio Almirante, seppure depurati degli aspetti meno facilmente adattabili al nostro tempo.
Potremo, e dovremo, a lungo discutere su quali siano state, e siano, le mancanze della sinistra e delle forze democratiche che hanno agevolato la destra italiana nel suo cammino verso il progetto che oggi procede nelle aule del Parlamento. Ma ora è più importante, urgente e indispensabile, trovare il modo di fermarle.