di Maura Locantore
«Credo utile abituare le intelligenze a cogliere unità nel molteplice aspetto della vita, abituarle alla ricerca organica della verità e della chiarezza, ad applicare i principi fondamentali di una dottrina a tutte le contingenze. L’intransigenza si attua nel pensiero prima che nell’azione, e deve attuarsi per tutto il pensiero come per tutta l’azione». Emblematiche e forti sono queste parole tratte dalla Città futura di Antonio Gramsci, nelle scorse settimane protagonista purtroppo non dello studio, ma solo della mera cronaca di questa nostra ‘italietta’, che hanno inciso un segno indelebile in Pier Paolo Pasolini che sente la chiamata ad essere intellettuale come un dovere, un obbligo che poi sfocia in un’ammirazione autentica e profonda per il toccante profilo umano e civile del pensatore sardo. Senza esasperazioni e enfasi, scomodo due grandi pensatori, uno maestro dell’altro, per una riflessione sull’egemonia culturale e sul ruolo che svolge la comunicazione, in particolare la televisione – la cosiddetta TV di stato – nella nostra società contemporanea riscontrando, ancora una volta, quanto sia attuale il pensiero dello scrittore corsaro e luterano e quanto sia necessario leggerlo, ogni oltre agiografia e superando il ricorso a quel “mito Pasolini” a cui ogni tanto assistiamo.
È il 3 gennaio del 1954 quando ha inizio il regolare servizio di televisione e la Rai appare sul piccolo schermo con il suo primo canale: alla fine del ’54 la televisione raggiunge il 58% della popolazione e nel 1966 raggiunge il 97% degli italiani, e, proprio questa ultima data che ho scelto come campione, incrocia una prima amara considerazione di Pier Paolo che auspico possa essere un buon punto di osservazione per sorreggere il ragionamento che qui si offre al pubblico di Bella ciao, un blog di futuro.
Procediamo con ordine: la televisione era vista in genere negativamente, alcuni intellettuali erano possibilisti, come ad esempio Francesco Alberoni; altri erano decisi negazionisti, ovvero tutti presi da una violenta voglia polemica verso la televisione ritenuta come strumento assoluto di alienazione della massa e soprattutto del singolo individuo – come sostiene ad esempio Zolla, seguace delle posizioni di Adorno e della Scuola di Francoforte-, e poi ancora vi è la posizione di Umberto Eco, vincitore di un concorso per entrare alla RAI, che inventa una contrapposizione rimasta a lungo famosa, quella fra “apocalittici” e “integrati”, ovvero fra i critici catastrofisti e tutti coloro (dipendenti o no della RAI) che lavoravano per la giovane industria televisiva e ne vedevano i pregi; e, infine, senza essere un ‘integrato’, il linguista De Mauro che riconosce quanto la televisione abbia contribuito in modo rilevante alla diffusione e all’uso della lingua italiana in una penisola con larghe zone di analfabetismo.
Pasolini, nel 1966, quando la televisione compiva dodici anni e si stava affermando con impetuosa consistenza, si esprime già con dura chiarezza, suscitando non poche polemiche per averla paragonata senza mezzi termini a un campo di sterminio: «Camera senza gas ma con raggi catodici ustionanti» delle idee, delle coscienze, della sensibilità. E, infatti, coerentemente, proprio in quell’anno, scrisse un articolo intitolato Contro la televisione, rimasto lungamente inedito, con parole che vanno a fondo e costituiscono una lunga epigrafe sulla tomba delle intenzioni che gli integrati predicavano ad alta voce: «La televisione è tutta buona?», si domanda retoricamente Pasolini per poi affermare che «la televisione è bravissima a fingere di essere il medium che unisce, mentre invece è proprio il mezzo che separa» e poi, così conclude, «esclude i telespettatori da ogni partecipazione politica come al tempo fascista: c’è chi pensa per loro, e si tratta di uomini senza macchia, senza paura, e senza difficoltà neanche casuali e corporee. Da tutto ciò nasce un clima di Terrore. Lo vedo chiaramente il terrore negli occhi degli annunciatori e degli intervistati ufficiali: non va pronunciata una parola di scandalo e poiché è scandalo anche un mal di pancia – se esso potenzialmente mette in discussione la sicurezza della spiritualità statale- praticamente non può essere pronunciata alcuna parola in qualche modo vera».
Pasolini porta alle estreme conseguenze il discorso sulla televisione in un articolo, pubblicato il 9 dicembre 1973 sul «Corriere della Sera» con il titolo Sfida ai dirigenti della televisione: «non è un mezzo tecnico neutrale, ma strumento del potere e potere essa stessa; non è semplicemente un mezzo per trasmettere messaggi, ma centro elaboratore di messaggi» ed è per questo, prosegue il poeta, «attraverso la televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere e mentre il fascismo si contentava di un consenso ideologico e politico, la televisione esercita una seduzione più subdola, agisce di soppiatto, attraverso forme di persuasione occulta che cambiano il vissuto, la cultura e i modi di essere della gente».
Pasolini si rende conto che non è la volontà pedagogica delle trasmissioni educative che conta, ma la realtà quotidiana rappresentata che plasma l’opinione pubblica perché ha dalla sua la forza del linguaggio delle cose, che non ammette repliche o alternative. Ne deriva un conformismo di massa in cui la persona scompare perdendo ogni identità propria. Perciò egli parla di nuovo fascismo che, a differenza del vecchio che non era riuscito a scalfirla, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione di massa «ha lacerata, violata, bruttata per sempre l’anima del popolo italiano». Nell’analisi di Pasolini la televisione, dunque, determina l’avvento non solo di un nuovo modello umano, ma anche di una nuova immagine del potere come totalità pervasiva e sistema globale, che stava mutando radicalmente la base sociale delle vecchie istituzioni.
Basti pensare che egli a metà degli anni Sessanta parla di una televisione in cui ancora non c’è e la volgarità, la banalità , l’annientamento culturale che possono corrispondere a ciò che passa attualmente sugli schermi, e siccome rifuggo dalla tentazione meccanicista di credere che le cose siano sempre state così o che dovessero essere così, reputo semplicemente che, come accade a tutti i grandi visionari, Pasolini abbia decifrato, in embrione, nei segni nel suo tempo i lineamenti del nostro, intravedendo nell’onnipotenza dei mass media l’avvento di un assolutismo strisciante di tipo nuovo che, sotto apparenze democratiche, mostra un volto più feroce di ogni altro dispotismo e, già cinquant’anni fa, ci abbia messo in guardia sulla disgrazia dell’oggi: viviamo una vera calamità culturale, in un pericoloso intrattenimento televisivo di volgare livello, che identifica il governo politico del Paese con la propaganda comunicativa.