Foggia. Khady Sene: «Io, prima donna immigrata a capo di una Caritas»

di Toni Mira, per gentile concessione di Avvenire

La scelta del vescovo Ferretti. In Italia dal 2012, senegalese, 31 anni, ultima di sette fratelli, ha operato nei ghetti della Capitanata prima come volontaria poi come operatrice

Un’immigrata alla guida della Caritas di Foggia. È Khady Sene, 31 anni, del Senegal, in Italia dal 2012, da più di dieci anni volontaria e poi operatrice accanto agli ultimi. L’ha nominata l’arcivescovo di Foggia-Bovino, don Giorgio Ferretti.

È la prima donna immigrata a ricoprire questo incarico in Italia e in assoluto il più giovane direttore di una Caritas diocesana. Immigrata, donna, giovane. E presto sarà anche cittadina italiana. «L’Italia è la nazione che mi ospita e dove vengo sostenuta nelle mie battaglie per i diritti degli ultimi e quindi mi sento al 100% sia senegalese che italiana», dice in un italiano perfetto.

Ultima di sette fratelli, dopo il diploma in lingue (parla quattro lingue, oltre ad alcune africane) decide di venire in Italia per gli studi universitari. Ma a Foggia scopre che il suo titolo di studio non è riconosciuto. «Così ho fatto gli esami di scuola media da privatista e poi ho seguito una scuola serale perché la mattina lavoravo come receptionist in un B&B. E vivevo ospite di una famiglia. Così mi sono diplomata in finanza e marketing e poi mi sono iscritta a Giurisprudenza. Il lavoro mi assorbe tanto ma la laurea è un obiettivo che raggiungerò».

Nel 2013 comincia a fare la volontaria in Caritas. «Guardandomi intorno, mi sono resa conto che non ero la sola, migliaia di migranti meno fortunati di me vivono nei ghetti, stretti nella morsa della criminalità organizzata. Non potevo stare a guardare, dovevo fare qualcosa. Il Signore deve aver ascoltato il mio cuore, perché presto la Caritas mi ha proposto un lavoro, prima come mediatrice e poi come operatrice».

Fino a diventare responsabile dei due progetti, Presidio e Sipla. «Ho da subito fatto attività di sportello nei ghetti perché sentivo il bisogno di non stare chiusa in un ufficio ma di uscire, di vivere quella realtà». Con una precisa convinzione: «Mi sono occupata molto dei temi del lavoro, con rapporti con le imprese e con le istituzioni. Con la Questura e con la Squadra mobile abbiamo fatto un bel lavoro per i permessi di soggiorno».

Come per la vicenda di Kemo, vittima nel luglio 2019 di una gravissima aggressione razzista, seguito da Khady già in ospedale, poi accolto in Caritas e ora autonomo con un lavoro e una casa. Ora toccherà a lei organizzare la “squadra” Caritas. «Il vescovo ha a cuore molti progetti, continuando quello che Giusy Di Girolamo ha fatto prima di me, ma anche creando nuove iniziative. Piano piano le realizzeremo ma non da soli».

Perché Khady ha un sogno per Foggia. «Vedere una città unita, capace di vivere insieme. Da sempre il mio lavoro non è quello di dividere ma di unire. Per questo sposo l’idea del vescovo di coinvolgere tutti, sempre in comunità, con le parrocchie e le organizzazioni del territorio». Sa di essere conosciuta come «la direttrice degli immigrati ma non mi occuperò solo di immigrati».

Assicura di non aver subito problemi di razzismo. «Sicuramente ci sono state occasioni spiacevoli, sguardi e parole che ti fanno sentire diversa. Ma non ci ho fatto caso, non mi sono mai sentita diversa. Questo è stato come uno scudo che mi ha aiutato a superare alcune difficoltà ed è quello che ho sempre cercato di insegnare ai ragazzi immigrati». Ed anche il rapporto con gli italiani che ha aiutato sono positivi. «Sono sempre stata accettata. Temevo qualche commento negativo degli italiani alla mia nomina. Invece non ce ne sono stati. C’è molta gente che va al di là del colore della pelle. Questo mi rassicura e mi dà forza per andare avanti». Un impegno certo non facile. «Sono tante le storie che ascolto, tutte dolorose ed emozionanti. Sono ben consapevole che il mio ruolo di operatrice umanitaria deve essere svolto con il cuore, perché bisogna fare tua la sofferenza del fratello che stai ascoltando altrimenti è solo assistenzialismo. Queste emozioni mi ripagano del lavoro che svolgo ed io, che sono stata fortunata, sono fiera di potermi prendere cura di loro».

Non tutte storie finite bene. «Sono tante quelle che ricordo con tristezza. Ma quella che mi ricorderò sempre è quella di un ragazzo del Ghana, Emmanuel, che ho assistito fino all’ultimo respiro. Altri grazie a Dio sono salvi, autonomi, hanno un percorso bellissimo, lui invece non ce l’ha fatto e lo ricorderò sempre». Ma ci sono anche tante storie belle. «Vedere riemergere tantissimi ragazzi che hanno sofferto. Come una ragazza che ho salvato dalla tratta insieme al suo bambino e oggi ha una casa, lavora, il bimbo va a scuola, è diventata davvero una vera donna, una mamma. Proprio due giorni fa mi ha telefonato dicendomi una cosa che mi ha colpito tantissimo. “La tua nomina non è solo un riconoscimento per te ma per tutti noi. Per questo dobbiamo dire grazie a monsignor Ferretti perché ha saputo guardare lontano”. Sentire le sue parole mi ha emozionato perché è qualcosa non solo tua ma di tutta la comunità che tu hai abbracciato e hai fatto tua».

A cominciare dal dramma dei ghetti che Khady non pensava di trovare in Italia. «Mio fratello per due anni ha vissuto per strada a Barcellona ma lì non ci sono ghetti. La prima volta che ho messo piede nel “gran ghetto” di Torretta Antonacci per una settimana non ho dormito sul letto perché mi sentivo male. Io comunque tornavo a casa, trovavo un letto, stavo bene, mentre nel ghetto ci sono persone che non hanno neanche l’acqua calda per farsi una doccia».

Per questo, aggiunge, «il nostro impegno sta andando avanti. Pochi giorni fa c’è stato un tavolo molto importante col prefetto Maurizio Falco, Commissario straordinario per il superamento dei ghetti. C’era anche l’arcivescovo e varie organizzazioni. Sono fiduciosa che si vada avanti e che quello che si realizzerà non diventino dei ghetti d’oro ma realmente delle abitazioni e questi ragazzi possano finalmente trovare l’Europa che sognavano».

E proprio i ragazzi di uno dei ghetti, quello enorme di Borgo Mezzanone dove vivono in più di duemila, sono venuti in Caritas a festeggiare la sua nomina. «È stato un momento molto speciale con loro». L’ultimo pensiero è per la famiglia lontana. «A casa sono più che felici e vogliono festeggiare. Anche perché nella mia famiglia sono la prima che ha continuato gli studi, che si sta laureando, che lavora e si batte per i diritti degli ultimi».