di Stefano Vaccari, pubblicato oggi su Huffington Post
Riposa in pace Satnam Singh e perdonaci se non siamo stati in grado di tutelare la tua dignità di uomo e lavoratore. Tu che insieme a tua moglie Alisha eri aggrappato ad una vita fatta di stenti e di sofferenza.
Non sei morto accidentalmente ma sei stato ucciso da un sistema che per 4 euro l’ora ha sfruttato il tuo bisogno di lavoro. Un sistema che ha bisogno di donne e uomini invisibili per fare girare l’economia, e per fare lavori che noi non vogliamo più fare. Ridotti a schiavi da caporali senza scrupolo assoldati da pochi “prenditori” alla ricerca di sempre più ingenti guadagni. Sei stato ucciso anche dall’indifferenza e dall’ipocrisia delle istituzioni che fanno leggi di tutela e poi irresponsabilmente le dimenticano in un cassetto. Per te e per tanti altri c’è un orario da rispettare, in fila prima dell’alba in attesa di un furgone malmesso che vi trasporterà nei luoghi della fatica dove se va bene trovate il sole, il sudore, un po’ d’acqua e il dolore, e se va male, dietro l’angolo, incontrate la morte. Per loro siete solo un numero perché c’è da rispettare i patti con il padrone che chiede con precisione tante unità quante ne servono per una semina o per una raccolta. Spesso detraggono dal misero stipendio i soldi di una catapecchia dove poter riposare la notte in condizioni igieniche disumane. Non avete nemmeno tutele sanitarie. Figuriamoci i contributi. L’importante è che lavoriate sodo, senza pause.
Finché uno stramaledetto giorno non capita un grave incidente come a te, Satnam e si viene abbandonati per strada mentre l’arto amputato giace solitario in una cassetta come un qualsiasi rifiuto.
Sei stato ucciso Satnam da una società che coltiva odio ed indifferenza, che si disinteressa della sofferenza degli altri, che ha perso l’umanità. Una società fatta di persone che giudicano il colore della tua pelle e che vivono sui pregiudizi non essendo interessati alle vicende che ti hanno portato nel nostro Paese. Non considerano che forse scappavi da una guerra, da una carestia o semplicemente dalla miseria, o per costruire un futuro migliore che il tuo Paese non ti garantiva. Ora in molti chiederanno a gran voce inchieste e giustizia ma tra qualche giorno rimarrà solo uno sbiadito titolo di giornale. Eppure tanto si potrebbe fare. Basterebbe poco. Dovremmo essere tutti convinti che il caporalato è un male assoluto così come lo sfruttamento del lavoro da parte di imprenditori voraci e compiacenti. Servirebbe un colpo d’ala. Applicare davvero la legge 199 del 2016 e respingere l’assalto dei carnefici. Servirebbe che la buona agricoltura si mettesse alla testa di questa battaglia di civiltà per isolare e denunciare chi inquina un comparto straordinario, la cui correttezza non è stata mai in discussione.
Servirebbero più fatti e meno propaganda da parte di chi, in questa fase, ha la responsabilità di guidare il nostro Paese. Le bandiere di partito dovrebbero essere ammainate. C’è un interesse collettivo da salvaguardare e c’è la morte di Satnam da riscattare, insieme a tante altre morti che hanno segnato tragicamente le nostre giornate in altri luoghi di lavoro. C’è ora da stare vicino ad Alisha, aiutarla e potergli dire che la morte di Satnam non è stata vana.
Addio caro Satnam, dedichiamo a te la strada della speranza in un mondo migliore. E perdonaci, se puoi.