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QUELLO CHE MELONI NON PUÒ DIRE (E FA DIRE A MOLLICONE)

di Daniele Borioli

Ci sono passaggi della vita istituzionale che svolgono inevitabilmente la funzione di “cartine al tornasole”: rivelatrici del pensiero profondo insediato nella storia e nei sentimenti dei protagonisti dell’attualità politica. A questa tipologia appartengono le dichiarazioni rilasciate dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in occasione dell’anniversario della strage di Bologna del 2 agosto 1980, la cui matrice neofascista è ormai da tempo accertata oltre ogni ragionevole dubbio.

La precisazione capziosa e forzatamente ambigua, che la prima ministra ha inteso adottare per definire quell’attentato e indicarne la matrice, qualificando di fatto le sentenze definitive solo come il punto di vista dell’ordinamento giudiziario, è tanto infida quanto grossolana: “terrorismo che le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni neofasciste”. Che da essa scaturisse una puntuale replica da parte dell’associazione dei familiari delle vittime è stato non solo naturale ma compiutamente salutare.

Di più: se l’inquilina di Palazzo Chigi non poteva spingersi oltre l’orlo del precipizio sul quale aveva deciso di affacciarsi, ci ha pensato il sodale Mollicone, non uno qualunque ma il Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, a completare senza più alcun equivoco il pensiero del capo. O se non il pensiero profondo e privato, difficile per chiunque da scrutare sino al più recondito anfratto, certamente il pensiero corrispondente al canone politico e culturale della formazione che pro-tempore è chiamata a guidare.

Secondo il duo Meloni-Mollicone, dunque, le responsabilità neofasciste nella strage di Bologna non sono la verità ormai definitivamente consegnata alla storia, non solo dalle sentenze ma da decenni di inchieste e atti parlamentari, da centinaia di testimonianze raccolte nel corso degli anni a supporto di una ricostruzione che riconduce sempre lì: all’anima nera, mai doma, che ha agitato il corso di tutta la storia della cosiddetta “prima repubblica”. Sono, piuttosto, il leit-motiv che la sinistra, e in genere le opposizioni di oggi suonano per delegittimare l’attuale destra di governo.

Naturalmente, sono diversi i registri adottati dai due per dire, alla fine, la stessa cosa: più piagnucoloso e vittimistico, secondo consuetudine, quello di Meloni; più arrembante, all’attacco, quello di Mollicone. In modo da consentire ai due di giocare, per evidenti ragioni di ruolo, due partite diverse nell’ambito del dibattito politico e istituzionale. E neppure ci sarebbe da stupirsi se nei giorni a venire, sempre che la canicola agostana non addormenti tutto sotto la sabbia, Palazzo Chigi segnasse sul piano comunicativo qualche, ovviamente concordata, precisazione volta a distinguere la posizione della sfuggente premier da quella del suo irruento, e più sincero, seguace.

Nei primi giorni di commenti a caldo, tralasciando quelli riconducibili alle testate più apertamente costituenti la claque della destra italiana, non sono mancate riflessioni critiche sulle dichiarazioni del Presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime, Paolo Bolognesi. Quella di Giovanni Orsina, su “La Stampa” del 3 agosto, che con un curioso ribaltamento della successione di fatti e parole ha paradossalmente concentrato le sue osservazioni critiche più sulle parole di denuncia, naturalmente passibili di diverse valutazioni e, tuttavia pronunciate da Bolognesi a replica della scivolosa dichiarazione di Meloni, che non sulla grave causa scatenante di quella replica: la luce sinistra di una dichiarazione ambigua, proiettata sulla verità storica da una delle massime autorità dello Stato. Che in un sol colpo ha portato l’attacco ai sentimenti della comunità bolognese e al potere indipendente della Magistratura, che il capo del governo avrebbe, per primo, il dovere di rispettare, dando prova pubblica del suo rispetto.

Più equilibrato e stimolante l’intervento di Andrea Malaguti, su “La Stampa” del 4 agosto, che pur assumendo nel suo ragionamento la considerazione di quanto insidioso possa risultare il ribaltamento automatico della verità storica, e delle responsabilità neofasciste che essa evidenzia, sulla destra attualmente al governo, non trascura di denunciare: l’ambigua doppiezza della frase di Meloni prima citata, che ha fatto esplodere la polemica; e, più ancora, la deflagrante inopportunità dei contenuti, dei modi e degli argomenti utilizzati dalla premier in replica alle parole di Bolognesi. Di cui, in questi due ultimi giorni, Federico Mollicone ha fornito e reso evidente il paradigma fondante, trasformando quello che poteva essere derubricato come un incidente del percorso comunicativo di Palazzo Chigi, solo uno dei tanti, in un consolidato punto di approdo della lettura che la destra di governo svolge a proposito della parte più nera della storia repubblicana.

Le considerazioni che si potrebbero svolgere sono moltissime. Mi limito perciò ad accennarne alcune. La prima, che muove proprio dalle riflessioni di Malaguti, riguarda l’incommensurabile squilibrio di ruolo tra i protagonisti della polemica: da un lato la Presidente del Consiglio, cui spetterebbe per responsabilità di ruolo il compito di temperare le fratture che una storia dolorosa come la strage di Bologna ha prodotto nel tessuto civile della nazione, soprattutto quando esse, attraverso le parole, riemergono dal dolore dei familiari delle vittime. Temperare: magari semplicemente tacendo per qualche giorno, cogliendo poi la prima occasione utile per correggere l’infelice uscita che ha provocato la secca replica di Bolognesi.

La seconda ha a che fare con il nocciolo duro della verità storica e politica. Quel “terrorismo che le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni neofasciste”, pronunciato dall’ospite di Palazzo Chigi, non è stata un errore o uno scivolone lessicale. Piuttosto, è stato l’esplicitazione di una tesi condivisa: certamente da Mollicone, ma con ogni evidenza da una parte molto rilevante del suo partito. Partito nel quale l’istrionico schiamazzare del Presidente del Senato svolge la funzione insostituibile di collante: utile a tenere insieme la componente nostalgica del neofascismo, con i settori riconducibili a un’anima conservatrice più moderata, affluiti in Fratelli d’Italia anche in virtù della consistente espansione del suo corpo militante e dirigente.

Quanti cercavano e continuano a cercare nel pensiero e nell’azione di Meloni una rottura netta con i suoi trascorsi profondamente segnati di neofascismo, sono costretti ancora una volta a rimandare l’appuntamento: Bologna e la rinnovata reticenza della premier su quella pagina nera della storia italiana conferiscono alla fiamma ancora presente nel simbolo del suo partito un significativo e inequivocabile fiammeggiare. I simboli, come si sa, sono già di per sé rivelatori di verità, spesso più delle parole: che in questo caso, però, sono pietre intervenute a confermarli con il tratto dell’ufficialità di un potere costituito dello Stato.

Insomma, con il 2 di agosto, la Presidente del Consiglio ha mostrato ancora una volta di non avere la forza, o più probabilmente l’intenzione, di sfondare il muro che le consentirebbe di portare definitivamente se stessa e i suoi, anche più anziani, camerati di militanza oltre le colonne d’Ercole che segnano il discrimine tra il passato neofascista italiano e una destra democratica conservatrice, di stampo europeo. Eppure, quello sfondamento sarebbe necessario e utile, non solo a lei e al suo partito, ma all’Europa e all’Italia nell’Europa. La quale ultima si trova nuovamente ad affrontare, nella nostra penisola, a oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, una nuova anomalia.

Quella di uno dei Paesi fondatori dell’Unione, lungamente paralizzato nelle sue possibilità di dar corso a una compiuta democrazia dell’alternanza a causa della “guerra fredda” e della concomitante presenza del più grande Partito Comunista occidentale, oltreché forza di gran lunga preponderante nel campo della sinistra italiana. E ora affidato al governo di una destra la cui forza principale non ha risolto, né pare voglia risolvere il suo ambiguo legame con il neofascismo generatosi all’indomani della Liberazione e sopravvissuto nel corso dei decenni successivi, pur nel contesto della neonata democrazia repubblicana e nonostante la messa al bando sancita dalla Costituzione.

È singolare che tra i molti osservatori e commentatori della vicenda politica presente, tanto spesso inclini a stabilire una sorta di simmetria tra l’esperienza dei totalitarismi fascista e nazista e quella del totalitarismo comunista, si trascuri di osservare la profonda differenza che sostanzia, nel nostro Paese, lo sviluppo dei due campi nel corso della seconda metà del ‘900 e sino ai nostri giorni. Non solo per l’evidente a-simmetria che ha visto i comunisti italiani, nonostante l’esercizio dell’ambiguo e troppo a lungo protratto legame di lealtà con il totalitarismo sovietico, svolgere un ruolo decisivo e mai contraddetto nel corso dei decenni, di protagonisti della lotta di liberazione nazionale e di costruttori leali della democrazia repubblicana: difesa con il sacrificio dei propri uomini anche nei confronti del terrorismo rosso.

Ma anche, e soprattutto, in virtù del cammino, certo non abbastanza tempestivo ma coerente e irreversibile, compiuto all’indomani della caduta del muro e pagato a costo di imponenti e dolorose lacerazioni nel tessuto di una comunità di milioni di donne e uomini. Accompagnata, non senza duri costi di militanza e consensi, a condividere una nuova stagione di speranze, posta inequivocabilmente oltre il campo disseccato e insanguinato dell’ideologia che aveva nutrito una lunga stagione politica, sino al disvelamento di fronte al tribunale della storia della natura oppressiva e regressiva connotante i regimi che ad essa si erano ispirati e uniformati.

Quel salto verso il socialismo riformatore, di stampo democratico, occidentale ed europeo, compiuto all’indomani dell’89 dal partito più grande della sinistra italiana, è costato un prezzo salato: l’abbandono di simboli amati, che per gli italiani significavano diritti e libertà, la rottura di rapporti politici e personali durati una vita, il venir meno o l’indebolirsi di strumenti ed esperienze preziose. Ma è stato compiuto. Ed è stato decisivo per tutti i passi successivi, sino alla nascita del PD, con l’incontro tra le culture riformiste di diversa matrice: socialista, cattolica, laica, ambientalista. Un processo irreversibile dal quale è scaturito il maturo approdo dell’Italia alle sponde della democrazia dell’alternanza.

Un processo che non conosce ad oggi eguali nel campo della destra. Da quelle parti, nonostante qualche “panno sciacquato a Fiuggi” alcuni anni fa, ancora non si riesce a spegnere la fiamma neofascista del simbolo. Né a rompere definitivamente con il passato missino, animato da un cultura neofascista mai compiutamente rinnegata, neppure a livello simbolico: alimentata dalla fiamma che Meloni non spegne perché né può né vuole spegnerla. Essa alimenta sul piano ideale una quota consistente del suo partito, secondo modalità che i più abili e navigati dirigenti riescono bene o male a dissimulare, mentre i più ruspanti proseliti delle articolazioni periferiche e delle organizzazioni giovanili lasciano spesso sguaiatamente trasparire.

I fatti e misfatti sviluppatisi in questi giorni intorno all’anniversario della strage di Bologna, pur nel loro drammatico e lacerante effetto, hanno se non altro il merito di aver reso chiaro, una volta di più, il tornante difficile lungo il quale si snoda il cammino della democrazia italiana. E sul quale incombe non certo il pericolo di un “ritorno al fascismo” del ventennio, bensì un’insidia più prossima e concreta. Quella di una torsione complessiva del nostro sistema democratico verso una natura altra da quella ad esso assegnata, con la Costituzione del 1948, dal concerto delle forze antifasciste. antifasciste.

In ultima istanza, il “pacchetto” delle riforme costituzionali e istituzionali, approntato dal Governo e dalla sua maggioranza, al di là delle insidie che ciascuno dei progetti specifici contiene, mostra nel suo insieme il disegno di una riscrittura sostanziale del patto costituente. Un patto rispetto al quale le forze dell’attuale maggioranza, e in particolare Fratelli d’Italia, hanno tutte le ragioni per sentirsi “altre”. A maggior ragione dopo il passaggio cruciale delle recenti elezioni europee: a esito delle quali la premier si è trovata risospinta verso una collocazione compiutamente destrorsa, dalla quale aveva cercato di affrancarsi attraverso il costante ed esibito dialogo con la Presidente uscente e confermata della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Senza, tuttavia, avere il coraggio di abbandonare in modo tranciante la contiguità con forze politiche apertamente reazionarie, euroscettiche e neofasciste.

Può darsi che all’origine dello scivolone politico e mediatico di Meloni sulla strage di Bologna ci siano anche il nervosismo e il disorientamento derivati dalla fallimentare gestione del dopo elezioni europee. Nervosismo e disorientamento visibili nei passaggi che hanno condotto alla formazione dei nuovi organi di governo dell’Unione e che possono spiegare il ripiegamento verso il porto sicuro della famiglia politica d’origine. Ma che non attenuano i cattivi presagi circa il cammino involutivo verso il quale la destra italiana sta avviando Paese. A pagare il conto salato di questa involuzione sarebbe l’intero Paese. Ed è ciò che va assolutamente fermato.