A cinquant’anni dal referendum: il divorzio e la Costituzione

di Angelo Schillaci

Il 12 maggio 1974 è una data di indubbia rilevanza costituzionale. In quell’occasione, infatti, il corpo elettorale ha incontrato la Costituzione ad almeno tre livelli.

Un primo livello è dato dallo strumento stesso attraverso il quale il corpo elettorale prese parola sul divorzio: il referendum abrogativo, indetto per la prima volta a 26 anni dall’entrata in vigore della Costituzione e a 5 anni dall’approvazione della legge di attuazione dell’articolo 75. Per la prima volta dal 2 giugno 1946, quindi, il corpo elettorale fu chiamato ad assumere e direttamente una decisione su una questione peraltro già molto dibattuta in Parlamento lungo tutto l’iter che aveva condotto alla legge Fortuna-Baslini. Attorno al quesito referendario si intavolò una vera e propria conversazione nazionale, nella quale conflitto politico e rivendicazione di libertà e diritti si intrecciarono in profondità, lasciando un segno duraturo. Da quella discussione – e dal risultato referendario cui condusse – sarebbero infatti scaturite ulteriori grandi conquiste sul piano dei diritti civili: dalla riforma del diritto di famiglia, fino alla cancellazione del delitto d’onore, passando per la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.

La questione dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale – d’altra parte – aveva segnato in profondità lo stesso dibattito costituente, ben prima che in Parlamento si iniziasse a discutere di divorzio, ed è questo il secondo livello di incontro con la Costituzione cui rinvia la ricorrenza del 12 maggio. L’inserimento in Costituzione del riferimento all’indissolubilità del matrimonio fu oggetto di una discussione accesa e conflittuale; introdotto dalla Commissione, fu soppresso in Assemblea per un solo voto (segreto) il 23 aprile 1947. Anche in quell’occasione, fratture significative attraversarono lo stesso mondo cattolico, tra chi difendeva il dogma e chi – pur credendovi e praticandolo – preferiva non imporlo con la forza del vincolo costituzionale. L’approvazione della legge n. 898/1970 – prima – e il chiaro esito del referendum – poi – avrebbero ripreso il filo di quella discussione, ponendovi fine e restituendo l’immagine – e la solida realtà – di un processo di attuazione della Costituzione capace di attraversare la società nelle sue pieghe più riposte, attivando virtù civili nella libera discussione democratica, dentro e fuori il Parlamento.

Vi è infine un terzo e più profondo livello di incontro tra l’Italia e la sua Costituzione, in quel 12 maggio 1974, ed è dato dalla stessa posta in gioco sottesa alla paventata abrogazione referendaria della legge n. 898/1970. La scelta sull’indissolubilità del matrimonio chiama infatti in causa il rapporto – cruciale – tra autorità del dogma e libertà delle scelte intime, tra etero- e auto-determinazione. E, con esso, chiama in causa il ruolo della libertà delle persone – e, nel caso del divorzio, la libertà delle donne in modo del tutto particolare – nella conformazione delle esperienze che rendono i diritti fondamentali qualcosa di più di una mera proclamazione o rivendicazione: sostanza di vita vissuta. Chiama in causa, in una parola, il rapporto tra l’articolo 29 della Costituzione – che riconosce i diritti “della famiglia” come “società naturale fondata sul matrimonio” – e l’articolo 2, che riconosce i diritti inviolabili di ogni persona sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Quale principio debba governare questo rapporto – se il dogma che dà forma immutabile alla famiglia, o la libertà che riempie ogni famiglia di un senso proprio – si decise in fondo anche con il referendum del 12 maggio 1974: e ciò rese possibile portare a compimento – in sede legislativa e nella giurisprudenza – un processo di trasformazione della famiglia che era già da tempo in atto nella società italiana. Fare della famiglia il luogo di espressione del libero svolgimento della personalità e non il luogo dell’ossequio alla tradizione o al conformismo sociale; e rendere la famiglia – il concetto stesso di famiglia – accogliente e inclusiva verso i molti modi si esprime la capacità umana di costruire relazioni. Questo percorso si inaugura con il referendum del 1974 e avrebbe condotto un anno dopo alla riforma del diritto di famiglia, che segna finalmente l’attuazione del principio costituzionale dell’eguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi. Ma avrebbe condotto anche – trent’anni dopo – all’approvazione della legge sulle unioni civili (il cui ottavo anniversario è caduto pochi giorni fa) e che testimonia la possibilità di declinare la famiglia al plurale, la quale nasce proprio dal riconoscimento della capacità delle persone di dare forma alla propria famiglia nell’esercizio della libertà e contro ogni dogma. Ritroveremo le tracce di quel 12 maggio 1974, ne sono certo, anche quando all’unione civile sostituiremo finalmente il matrimonio per tutte le persone e alla tenace persistenza del paradigma eterosessuale nella disciplina della genitorialità sostituiremo l’eguale rispetto per tutte le famiglie. Quando cioè, anche in questo ambito, la promessa costituzionale di emancipazione e fioritura della persona – e dunque di libertà nella relazione, nella solidarietà, nella corresponsabilità e nella pari dignità sociale – sarà realizzata per tutte e tutti.