di Andrea Catena – Direzione regionale PD Abruzzo
La sconfitta in Abruzzo è netta ed inequivocabile. Credo si debba partire da qui, senza edulcorare la realtà. Sarebbe un errore consolarsi con il buon risultato del Pd, (+4% circa rispetto alle elezioni politiche, attestandosi al 20,3%). È la prima volta in 30 anni che in Abruzzo non c’è alternanza. E questo pur a fronte di una giunta regionale di Marsilio che vanta pessime performance in termini di peggioramento delle prestazioni sanitarie, perdita degli investimenti, riduzione dell’occupazione e fuga dei giovani. Non è bastato nemmeno aver realizzato, unico caso in Italia, un campo larghissimo, attorno alla figura prestigiosa e credibile di Luciano D’Amico. Ciò rende ancora più grave la sconfitta, che non può certo essere derubricata come fatto locale relativo ad una piccola regione, se si considera che l’Abruzzo è stato in passato, grazie alle scelte lungimiranti di una personalità come Franco Marini, il laboratorio del nuovo centrosinistra, dopo le batoste berlusconiane degli anni novanta. L’Abruzzo, questa volta, senza un’attenta riflessione politica, rischia di essere invece il laboratorio dell’impossibilità di un’alleanza, testardamente e meritoriamente voluta dal Pd, ma subita in modo recalcitrante dalle altre forze. Ed è questo il primo punto. Non si possono costruire alleanze vincenti, se i gruppi dirigenti delle forze che le compongono non vi aderiscono in modo convinto, se non si definisce un programma condiviso, che unisce realmente. Se non sei convinto dell’alleanza che proponi, se non credi nella proposta politica che avanzi, è difficile che siano gli elettori a farlo.
Occorre tuttavia rendere più profonda l’analisi, soprattutto a fronte di un astensionismo che si è confermato drammaticamente alto (47,8%). Non bastano le alleanze tra partiti, se prima non si ricostruisce un’alleanza con la società, se non si mette in campo un progetto che unisca le istanze delle classi popolari, colpite dalla crisi economica e sociale, che ha assunto le forme dell’inflazione e del caro energia, in conseguenza della pandemia e della guerra, con gli interessi di ceti medi sempre più disorientati e delle classi più dinamiche della società. Non bastano i campi, per quanto larghi, se non si affronta con coraggio e radicalità la questione della forbice che si allarga sempre più tra ricchi e poveri, tra ceti popolari e classi abbienti, tra aree urbane integrate, da un lato, ed aree periferiche emarginate, dall’altro.
In Abruzzo, la rimonta che molti di noi, me compreso, percepivano c’è stata ma è stata “confinata” alle aree urbane e costiere della regione. A Pescara, Luciano D’Amico ha vinto con il 52,3%, ed il Pd è nettamente il primo partito della città con il 28,4%. Analoghi risultati ci sono stati a Teramo città (dove Luciano D’Amico ha operato come rettore), nel resto della costa teramana, così come nelle aree urbane di Chieti e Pescara. La sconfitta è stata però drammatica in molti piccoli centri e nelle aree interne, e soprattutto nella provincia aquilana e nel territorio marsicano. Nella provincia dell’Aquila Luciano D’Amico ha ottenuto appena il 38,7% (Legnini nel 2019 senza campo largo si era fermato al 32%). È evidente che buona parte dell’elettorato del campo largo, probabilmente soprattutto del M5S – fermo al 4,9% in quella provincia e al 7% regionale – non è andato a votare. Ma è anche evidente che territori colpiti da fenomeni di depressione economica, sociale e demografica hanno cercato risposta alla domanda di protezione in antichi sistemi di intermediazione dell’offerta politica. Alla proposta dinamica di rinnovamento e rilancio, avanzata dal prof. D’Amico, hanno preferito la rassicurazione facile del potere consolidato. Siamo di fronte ad un dualismo regionale, che rischia di dividere drammaticamente una regione per tradizione attraversata da un pluralismo di identità territoriali e la espone drammaticamente alle possibili conseguenze dell’autonomia differenziata in salsa leghista e meloniana, per ciò che riguarda l’offerta di servizi e la garanzia di diritti sociali fondamentali. Ma questa minaccia, per l’appunto, non è bastata a fermare la conferma della Giunta Marsilio, a fronte di un progetto politico alternativo messo in campo tardivamente ed in modo poco convinto. Da ciò sarebbe sbagliato dedurne, a livello nazionale, il fallimento del campo largo come pilastro dell’alternativa. La lezione che invece bisogna trarne è che per essere vincente l’alternativa ha bisogno di una forte identità programmatica e soprattutto di una ripresa del rapporto con il paese profondo e con le sue sofferenze.