Automotive: ecco di dati della Fim-Cisl. É crisi senza freni: serve un piano per rilanciare l’Italia dell’industria e del lavoro

di Mattia Ciappi

La crisi che attraversa l’industria automobilistica italiana non è solo un dato economico, ma un sintomo di un problema più profondo. I numeri forniti dalla Fim-Cisl sono impietosi: nel 2024 Stellantis ha prodotto appena 283.090 autovetture in Italia, riportandoci a livelli produttivi del 1956. È un dato che parla di declino, di mancate scelte strategiche e di una politica industriale incapace di anticipare il futuro. Non possiamo limitarci a osservare passivamente il fenomeno: è il momento di agire con visione, coraggio e pragmatismo.

Le criticità sono chiare. Da un lato, la mancanza di modelli a basso costo capaci di generare volumi significativi; dall’altro, il rallentamento della transizione elettrica, con una produzione di auto green che stenta a decollare. A questo si aggiungono le scelte dell’ex amministratore delegato Carlos Tavares, che ha preferito puntare su margini di profitto a breve termine, sacrificando l’innovazione e una strategia industriale sostenibile nel lungo periodo.

Il centrosinistra non può restare in silenzio davanti a questa situazione. L’industria automobilistica non è solo un settore economico: è occupazione, tecnologia, innovazione. È un pezzo fondamentale della nostra identità industriale, che merita una strategia pubblica forte e lungimirante.

Serve un piano che rilanci la produzione, ma che lo faccia su basi nuove. Innanzitutto, la transizione ecologica deve diventare una priorità reale e non solo uno slogan. Non possiamo più tollerare ritardi nella produzione di veicoli elettrici e ibridi. La nuova piattaforma small a Pomigliano e la 500e a Mirafiori sono passi avanti, ma insufficienti. Il governo deve sostenere con incentivi mirati non solo la produzione, ma anche la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie green, coinvolgendo università, centri di ricerca e imprese innovative.

Al tempo stesso, è indispensabile una politica industriale che affronti il tema della competitività dei costi. La mancanza di modelli accessibili è un segnale allarmante: senza auto capaci di parlare al mercato di massa, l’Italia rischia di restare ai margini delle catene globali del valore. Questo significa lavorare su una fiscalità che premi chi produce in Italia e su contratti di lavoro che garantiscano diritti, ma anche flessibilità e innovazione.

Infine, è il momento di ridefinire il rapporto tra pubblico e privato. L’annuncio di investimenti per 2 miliardi da parte di Stellantis è positivo, ma non possiamo lasciare che siano le multinazionali a dettare da sole il ritmo del cambiamento. Serve un tavolo permanente tra governo, sindacati e imprese per monitorare i progressi, correggere gli errori e garantire che gli investimenti promessi si traducano in occupazione stabile e qualificata.

L’Italia ha le competenze, le risorse e il talento per rilanciarsi come hub europeo dell’auto. Ma serve una politica che creda nel futuro, che metta al centro il lavoro e l’innovazione e che non abbia paura di scommettere sulla transizione ecologica come motore di crescita. È una sfida complessa, ma anche una straordinaria opportunità. Non coglierla sarebbe un errore storico.