Gli interessi prima di tutto: i ‘confederati’ del gioco d’azzardo e dello Sport vanno avanti nonostante tutto
di Filippo Torrigiani
Pare proprio che le massime continuino a resistere al trascorre del tempo: nel caso di fattispecie il proverbio che recita ‘fatta la Legge trovato l’inganno’ si adatta benissimo alle circostanze relative alla pubblicità al gioco d’azzardo.
Le cose all’italiana: va infatti rammentato che, l’articolo 9 del decreto-legge 87/2018 – convertito dalla Legge 96/2018 (cd. Decreto Dignità) – ha introdotto, nel nostro ordinamento, il divieto di realizzare pubblicità, anche indiretta, attraverso qualsiasi mezzo, relativa al gioco d’azzardo. Il Parlamento, con l’approvazione di questa Legge, ha inteso garantire un più efficace contrasto del disturbo da gioco d’azzardo e non a caso il Testo recita: “è vietata qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e i canali informatici, digitali e telematici, compresi i social media“. La ratio del divieto è dunque da intendersi quale misura di contrasto alla dipendenza e nondimeno proiettata al rafforzamento della tutela del giocatore, con particolare riferimento alle categorie vulnerabili (giocatori patologici, minori, etc). Questo è quanto, il Legislatore, ha approvato. Ma in realtà le cose sono andate (purtroppo) diversamente. Il cortocircuito in questione si è innescato in seguito alle linee guida fornite in seguito da AGCOM (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) che, nella pronuncia dei suoi intendimenti, ha ornato il dispositivo di interpretativi circa l’ordine e gli ambiti di applicazione, tali da consentire alle società che operano nel comparto delle scommesse di bypassare la Legge aggirandone, nei fatti, il contenuto che ne ha ispirato il principio: ovvero il divieto assoluto di pubblicità al gioco d’azzardo.
In buona sostanza è accaduto che, a causa una serie di “deroghe” al divieto, come i cosiddetti “spazi quote”, le rubriche ospitate dai programmi televisivi o web sportivi che indicano le quote offerte dai bookmaker, considerate “informazione” e non pubblicità. Sulla scia di questa deroga, sono nati decine di siti di infotainment che non pubblicano contenuti sulle scommesse ma certamente le richiamano palesemente: è stato sufficiente inserire dopo al nome del sito di scommesse la frase ‘.info – .sport etc, e i campi di calcio ne sono oggi l’esempio più evidente.
In un paese mediamente normale, di fronte a questa situazione che palesa l’attuazione di espedienti legali che consentono di non attenersi alle normative in vigore, ci saremmo aspettati che Parlamento e governo si fossero attivati per apportare i correttivi necessari a ripristinare gli intenti e la vocazione per i quali il divieto della pubblicità ai giochi e alle scommesse è stato concepito. Viene dunque da chiedersi se, un business come questo che vale circa 150 milioni di euro all’anno, sia più potente di una Legge dello Stato.