Lo stato di salute dell’Università (e dello spazio pubblico) in Italia

di Angelo Schillaci

Il 10 ottobre 2024, i Presidenti di più di settanta società scientifiche hanno indirizzato un documento alla Ministra dell’Università e della ricerca, mettendo in luce i rischi di un ridimensionamento del sistema universitario pubblico implicati dai più recenti interventi in materia. Nel corso dell’estate, infatti, il Governo è intervenuto sia sul piano dei finanziamenti – riducendo notevolmente la capienza del Fondo di finanziamento ordinario delle Università – sia sul piano del reclutamento, depositando in Parlamento un disegno di legge che interviene sulla disciplina del cd. pre-ruolo.

Sul primo profilo, le società scientifiche firmatarie del documento denunciano la riduzione di 173 milioni del Fondo e la mancata assegnazione delle coperture aggiuntive per i 340 milioni previsti dal piano per gli associati: ciò ha comportato – come ovvio – una consistente riduzione dei fondi a disposizione dei singoli Atenei, salvo rare eccezioni. Gli effetti del definanziamento sono statiulteriormente aggravati dal recente adeguamento ISTAT degli stipendi per i docenti universitari che – in assenza di assegnazione di risorse ulteriori alle università – dovrà essere coperto utilizzando “le risorse che il precedente governo aveva assegnato per i piani straordinari di reclutamento, una parte di fondi precedentemente vincolati alla ricerca e i residui degli accordi di programma per l’edilizia universitaria”. 

Sul secondo profilo, le società scientifiche richiamano la moltiplicazione delle posizioni di pre-ruolo, prefigurata dal disegno di legge del Governo, e l’introduzione del professore “aggiunto” – nella figura di “esperti esterni incaricati direttamente dai Rettori, con ruoli e prerogative interamente da definirsi” – sottolineando che resta invece congelata l’attuazione del contratto di ricerca, introdotto nel 2022 proprio per superare la precarizzazione del pre-ruolo.

L’introduzione del contratto di ricerca implicava infatti il superamento degli assegni di ricerca a favore di una figura contrattuale stabile – seppure a tempo determinato – e pienamente tutelata (anche sul piano previdenziale), così mettendo a disposizione dei giovani ricercatori un canale sufficientemente affidabile di accesso all’accademia: è noto, tuttavia, che nei due anni successivi alla sua introduzione in sede legislativa, tale figura contrattuale non è stata attuata e, piuttosto, il legislatore ha provveduto a prorogare la possibilità di bandire assegni di ricerca (cioè esattamente ciò che si voleva superare). 

Il disegno di legge del Governo segna invece un arretramento significativo. Da un lato, alla semplificazione favorita dagli interventi del 2022 – un percorso chiaro e definito, che dal dottorato di ricerca conduceva al ricercatore in tenure-track, passando per il contratto di ricerca, il quale sarebbe stato destinato a unificare e sostituire le diverse figure di contratti precari – il disegno di legge del Governo oppone una proliferazione di figure contrattuali rivolte a neo-laureati (borse per assistente junior alla ricerca) e neo-dottori di ricerca (borse per assistenti senior alla ricerca e contratti post-doc). D’altro canto, la moltiplicazione di figure contrattuali temporanee espone nuovamente i giovani ricercatori al rischio della precarizzazione, allontanando e rendendo tortuoso il raggiungimento della piena autonomia scientifica, economica e quindi personale. 

Queste diverse linee di indirizzo – il definanziamento del FFO e la prospettata riforma del pre-ruolo – vanno lette assieme e, se poste in relazione con il fatto che la spesa pubblica per la ricerca, in Italia, non raggiunge ancora nemmeno l’1% del PIL, restituiscono un quadro di ridimensionamento del sistema universitario pubblico, che può e deve preoccupare. 

Un’università pubblica più povera, una classe docente ancora e sempre più precaria e chissà ancora che cosa, se solo si pensa agli ulteriori annunciati tagli alla spesa pubblica con la legge di bilancio. 

Un’intera generazione di ricercatrici e ricercatori è già stata soffocata – dopo il 2008 – dai tagli lineari e dal blocco del turnover: questo ha comportato, per un verso, un rallentamento delle carriere e, per l’altro, la crescita del numero dei cd. “cervelli in fuga”: possiamo permetterci che quel processo si ripeta? La precarizzazione e il definanziamento incidono in maniera molto significativa sull’indipendenza delle ricercatrici e dei ricercatori, sul loro senso di sé e dell’appartenenza al sistema e rendono difficile – se non impossibile – il consolidamento di una classe di ricercatori (e docenti, non dimentichiamolo) capace di sinergie, attitudine critica, consapevolezza del proprio tempo e del proprio ruolo sociale. Come incide tutto questo sullo stato di salute dei gruppi dirigenti – di oggi e di domani – e, soprattutto, sullo stato di salute dello spazio pubblico in questo Paese?

Lo scenario assume toni ancora più foschi se si pensa che – accanto al ridimensionamento – non sono mancati nelle ultime settimane attacchi assai significativi alla libertà di ricerca e di insegnamento. Basti pensare alle polemiche suscitate – nel dibattito pubblico e anche parlamentare – dallo svolgimento, nell’Università degli studi Roma Tre, di un laboratorio (di carattere narrativo e ludico-ricreativo) organizzato da un gruppo di ricerca attivo nello studio dell’infanzia e dell’adolescenza gender diverse. O ancora, più recentemente, all’attacco rivolto da un deputato della maggioranza a Federico Zappino, docente di Filosofia Politica nell’Università di Sassari e “colpevole” non solo di essere titolare di un insegnamento in “Teorie di genere e queer” ma di adottare – tra i materiali didattici – parti degli “Elementi di critica omosessuale” di Mario Mieli: attacco che si concludeva con la richiesta espressa alla Ministra dell’università e della ricerca di attivarsi affinché tale insegnamento venga soppresso. Questi attacchi si aggiungono all’elenco – ormai lungo – di tentativi di ingerenza nella libertà di insegnamento scolastico: penso, da ultimo, alla risoluzione approvata dalla Commissione Cultura della Camera dei Deputati, su proposta del medesimo deputato, con la quale si impegna il Governo – tra l’altro – ad adottare opportune iniziative per escludere che “l’insegnamento scolastico venga utilizzato per propagandare tra i giovani, in modo unilaterale e acritico, modelli comportamentali ispirati alla cosiddetta «ideologia gender»”.

Difficile non scorgere – in queste recenti e apparentemente scollegate tendenze in materia di università, insegnamento e ricerca – un disegno unitario. Basti per ora insistere ancora una volta sulla centralità della libertà di ricerca e di insegnamento nella costruzione di uno spazio pubblico aperto, percorso da discussioni e confronto, e di una cittadinanza critica e consapevole; e di quanto sia importante, per rendere effettive la libertà di ricerca e di insegnamento, il rafforzamento delle loro condizioni materiali di esercizio, sia per quel che riguarda il finanziamento delle istituzioni universitarie e della ricerca pubblica, sia per quel che riguarda le condizioni di lavoro nelle università.