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Premierato: la rigidità che rende più fragile la democrazia

Angelo Schillaci

Con il deposito degli emendamenti in Commissione Affari costituzionali al Senato, sono entrati nel vivo i lavori parlamentari sul disegno di legge di revisione della Costituzione proposto dal Governo in materia di elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri.

Il testo, accolto molto criticamente dalla grande maggioranza degli esperti auditi in Commissione, incide su uno snodo fondamentale del funzionamento della nostra forma di governo, e cioè la nomina del Presidente del Consiglio e la disciplina del rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo. L’obiettivo della maggioranza è molto chiaro. Al nesso di legittimazione che lega il corpo elettorale al Governo attraverso la fondamentale mediazione del Parlamento e delle forze politiche – tipico della forma di governo parlamentare – si vuole sostituire la legittimazione plebiscitaria del vertice dell’esecutivo, mantenendo in piedi il rapporto di fiducia, che viene però irrigidito e ridotto sostanzialmente a un simulacro.

Ciò comporta, come inevitabile corollario, lo svuotamento dei poteri di garanzia del Presidente della Repubblica, dalla nomina del Presidente del Consiglio allo scioglimento delle Camere. Poteri che solo formalmente vengono lasciati intatti ma resi, nella sostanza, vincolati e subordinati all’elezione diretta del Presidente del Consiglio.

L’obiettivo dichiarato è quello di assicurare la stabilità rafforzando, al tempo stesso, la capacità del corpo elettorale di concorrere alla determinazione della politica nazionale. La Costituzione, tuttavia, esprime sul punto una opzione chiara: come recita l’articolo 49, i cittadini concorrono alla determinazione della politica nazionale associandosi in partiti e con metodo democratico. Tale opzione ha – nel quadro di una forma di governo parlamentare – un valore ben preciso: la democrazia si realizza attraverso la partecipazione, la discussione, il confronto nelle sedi rappresentative e non attraverso la legittimazione popolare di un vertice, lasciato poi libero di determinare l’indirizzo politico del paese in assenza di contrappesi. È proprio questa fondamentale scelta della nostra Costituzione, allora, a essere messa in discussione dal progetto e ciò deve interrogarci profondamente. Qual è, in altri termini, il modello di democrazia sotteso a questa riforma? Un modello di democrazia costituzionale, nel quale cioè la sovranità del popolo che si fa maggioranza incontra sempre i limiti posti a garanzia di chi maggioranza non è, come si evince dall’articolo 1, comma 2 della Costituzione; o un modello di democrazia ridotto all’identificazione con il/la leader di quella maggioranza? Me, the People, come recita il titolo di un bel volume di Nadia Urbinati sulle leadership populiste; o We, the People, come è invece coerente con secoli di costituzionalismo? Questa è la posta in gioco, anche al di là degli aspetti tecnici del disegno di legge in discussione al Senato (e sui quali pure molto si potrebbe dire).

Ora, è innegabile che il funzionamento della forma di governo parlamentare in Italia sia stato caratterizzato storicamente da un elevato tasso di instabilità governativa che, negli anni più recenti, si è accompagnato a un crescente tasso di instabilità politica; così come è innegabile che il nesso partecipativo disegnato dall’articolo 49 della Costituzione e inverato dalla disciplina costituzionale della forma di governo (e dalla sua concreta configurazione nella prassi) si sia progressivamente indebolito. Questo, anche a causa della crisi dei partiti, a sua volta determinata – oltre che dalla difficoltà, storica e sistematica, di integrare società sempre più complesse e frammentate – da sistemi elettorali che progressivamente hanno mortificato il rapporto tra elette/i e corpo elettorale e anche dal superamento del finanziamento pubblico dei partiti politici.

Ma l’irrigidimento in senso plebiscitario della forma di governo può davvero porre rimedio a tutto questo? Credo di no, anzi: esso rischia seriamente di conclamare la fragilità del sistema, esponendolo a una instabilità ancora maggiore, tanto governativa quanto politica. Instabilità governativa, perché la disciplina della forma di governo viene ulteriormente irrigidita – come si evince dagli emendamenti presentati dal Governo – dall’automatico scioglimento delle Camere in caso di approvazione di una mozione di sfiducia e dall’alternativa tra nomina di un secondo premier all’interno della maggioranza e scioglimento in caso di dimissioni volontarie (senza che si chiarisca, peraltro, cosa avviene quando le dimissioni sono determinate dalla bocciatura di una questione di fiducia). La forma di governo perderebbe pertanto quell’elemento di flessibilità, tipico dei regimi parlamentari, che consente di gestire e superare anche crisi interne alla maggioranza. Instabilità politica, perché ridurre il nesso di legittimazione al rapporto diretto tra corpo elettorale e vertice dell’esecutivo finirebbe per esasperare la conflittualità e restringere a rigide alternative binarie i termini di una discussione che è sempre, inevitabilmente, più complessa.

Al contrario, un serio intervento riformatore dovrebbe muovere, certo, dai profili di fragilità esistenti – a partire dall’indebolimento del Parlamento e dei partiti – ma dovrebbe al tempo stesso cercare di risolverli in un quadro di ampia condivisione e di coerenza con l’impianto dei principi fondamentali della Costituzione. In questa direzione si stanno muovendo le forze di opposizione e il Partito Democratico: lavorare sul funzionamento della forma di governo parlamentare tenendo in equilibrio, nel solco del modello tedesco, stabilità e pluralismo, efficacia dell’azione di governo e rafforzamento del ruolo del Parlamento.

La disciplina costituzionale della forma di governo ha la funzione di razionalizzare la politica: e cioè di indirizzarla, limitandone gli eccessi e garantendo i diritti delle minoranze e la qualità della partecipazione politica e del processo democratico. Quando, invece, l’intervento di riforma si muove nella direzione di assecondare la politica – o ancora peggio, come sempre più evidente, di assecondare le esigenze di una parte politica in una ben precisa fase storica – la funzione della Costituzione ne esce indebolita e la democrazia è resa più fragile.