di Valentina Chinnici
La valutazione è, in un modo o nell’altro, espressione del potere che l’insegnante gestisce in classe. E dunque rappresenta un oggetto delicato e da maneggiare con molta cura in qualsiasi grado di scuola e nel primo ciclo in particolare. Il pendolo, nel dibattito pubblico e negli indirizzi politici, oscilla sempre tra il considerarla uno strumento con funzione sanzionatrice, selettiva e di controllo e l’intenderla come strumento di promozione della persona con funzione educativa e di “rinforzo positivo”.
Quando prevale la prima idea si riaccende il dibattito sull’utilità del voto numerico, che, come diceva l’ispettore Giancarlo Cerini, gode del favore nazional-popolare, in quanto giudicato più chiaro e intellegibile rispetto ai più o meno oscuri e farraginosi giudizi descrittivi. Eppure, dal 1977 al 2008, dunque per oltre 30 anni, la scuola di base ha vissuto serenamente senza i voti, optando consapevolmente per una valutazione di impronta formativa, tesa soprattutto a raccontare un percorso di crescita piuttosto che a fotografare la sommatoria di singole performance. Liberi dalla tirannia del voto, noi insegnanti “democratici” cercavamo di intendere la valutazione non come un assolvimento burocratico in chiave appunto sanzionatoria, ma come “una mossa riflessiva” (Cerini), un momento del percorso didattico teso a dare feedback in ordine all’efficacia dell’azione didattica per rimodularla, correggere il tiro, cambiare registro. La valutazione era dunque oggetto privilegiato di indagine non solo per calibrare strumenti tecnici, come ad esempio le rubriche, o per strutturare prove di verifica coerenti con i percorsi disciplinari, ma perché era avvertita come un campo di ricerca e di riflessione tesa a migliorare l’insegnamento e a rafforzare la positività della relazione tra insegnante e allievi, di cui la fiducia è la condicio sine qua non, come qualsiasi docente sperimenta fin dai suoi primi passi in un’aula.
Ecco perché la delusione fu grande quando la cosiddetta “Buona Scuola” riconfermò nel 2017 i voti numerici reintrodotti appunto nel 2008 dalla ministra Gelmini, mentre tre anni dopo salutammo con speranza il ripristino dei giudizi descrittivi almeno nella scuola primaria. Pensammo insomma che era il primo fondamentale passo per tornare finalmente con decisione a una valutazione coerente con l’indirizzo fornitoci dalle Indicazioni Nazionali per il Curricolo del 2012 secondo le quali la valutazione “assume una preminente funzione formativa, di accompagnamento dei processi di apprendimento e di stimolo al miglioramento continuo”. Ecco perché oggi la decisione del Ministero di tornare a giudizi sintetici (con tanto di precisazione dell’utilità del “Gravemente insufficiente” alla primaria) che di fatto sono assimilabili ai numeri corrispondenti ci lascia spiazzati e ci fa temere che sia un primo compromesso per ripristinare ancora una volta i voti. Noi, associazioni professionali storiche che alla progettazione e alla ricerca, anche docimologica, dedichiamo il nostro impegno da decenni, riteniamo che una scuola che ha bisogno del voto numerico per riacquistare autorevolezza e prestigio è di fatto una scuola fragile, da bollino Invalsi, dove non agiscono professionisti riflessivi, ma educatori impauriti e inadeguati, inconsapevoli dell’alto mandato che la Costituzione affida loro. A 100 anni dalla Riforma Gentile siamo convinti che occorre finalmente lasciarci alle spalle retaggi selettivi malcelati da formule demagogiche e dalla retorica dell’eccellenza, per praticare, nel fare scuola quotidiano, gli insegnamenti di quelle maestre e di quei maestri che hanno scritto le pagine più belle della scuola che si riconosce nell’art. 3 comma 2 della Costituzione. Proprio questi grandi maestri ci hanno insegnato che la valutazione deve essere “mite”, descrittiva e narrativa, tesa ad incoraggiare attestando effetti positivi. Per il semplice motivo che, come diceva Danilo Dolci, che a giugno compirebbe proprio 100 anni, “ciascuno cresce solo se sognato”.