di Stefania Gasparini
Sentiamo dire da tempo come, a ogni livello, la sanità pubblica sia in crisi. E non soltanto nelle regioni in cui il servizio pubblico è sempre stato più tradizionalmente carente, ma anche nel fiorente nord, anche in Emilia-Romagna.
Liste d’attesa, strutture obsolete, personale sull’orlo del burnout per troppo affaticamento, ricambio non sufficiente. Anche il rapporto con i cittadini pare essersi andato deteriorando: da ‘eroi’ in prima linea per contrastare il Covid-19 a rischio della salute – secondo i dati sono 500 i professionisti sanitari deceduti a causa del virus – sono passati a essere troppo spesso oggetto di aggressioni anche fisiche.
Ma partiamo dai numeri. Che testimoniano di una gravissima carenza di personale: come evidenziato dal Forum delle Società Scientifiche dei Clinici Ospedalieri ed Universitari Italiani (FoSSC), in Italia mancano all’appello 30.000 medici ospedalieri, 70.000 infermieri e circa 100.000 posti letto. Per non parare dei medici di medicina generale (i cosiddetti ‘medici di famiglia’), che difetterebbero di oltre 3.100 unità.
Sul fronte delle risorse, poi, la situazione non va meglio: per la Sanità pubblica lo Stato italiano spende il 6,2% del PIL, ben al di sotto della media OCSE (6,9%). Un dato che colloca l’Italia al 16° posto in Europa e all’ultimo fra i Paesi del G7. Lo stesso Orazio Schillaci, Ministro della Salute del Governo Meloni, riconosce che il livello minimo accettabile dovrebbe essere il 7%, e il Partito Democratico ha proposto di portarlo al 7,5%, oltre a togliere i vincoli di bilancio per le assunzioni.
Stando così le cose, non si può che partire da una constatazione: il Governo deve assumersi le proprie responsabilità.
Tuttavia, nonostante le risorse insufficienti, l’Emilia-Romagna è al primo posto sia per quanto riguarda l’applicazione dei LEA (i Livelli Essenziali di Assistenza), che per migrazione attiva dalle altre Regioni.
Esiste però, come detto, un enorme problema di personale, che non può che riguardare inevitabilmente anche la nostra regione, e si traduce in allungamento delle liste d’attesa, stress del personale e, cosa più importante, tempo sempre più limitato da dedicare ai pazienti.
Tra l’altro ho avuto modo di toccare con mano il tema: durante il lungo percorso della mia malattia ho sperimentato in prima persona cosa significhi vivere da paziente la sanità. Ho potuto apprezzarne gli enormi pregi, le straordinarie professionalità, così come gli elementi da migliorare e le criticità. Inoltre in queste settimane sto incontrando medici e operatori sanitari per ascoltare il punto di vista di chi è sul campo ogni giorno, raccogliendo proposte e spunti preziosi.
Per questo posso ben affermare che il più grande patrimonio della sanità, non dimentichiamolo, è il personale socio-sanitario, ed è proprio da lì, dunque, che occorre partire.
Per questo dobbiamo fare tutto il possibile perché medici, infermieri, e tutti gli operatori della complessa macchina della salute possano operare nelle migliori condizioni: in termini di numeri, stipendi, pazienti a carico, ma anche di possibilità di vivere dignitosamente nei territori in cui prestano servizio
Per questo, in quanto candidata capolista per il Pd all’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, la mia proposta è quella di incentivare in ogni modo possibile la regolarizzazione e la stabilità di chi opera nei servizi, a partire da un presupposto: tutte le risorse disponibili vanno dedicate alla sanità pubblica e universale. Non è pensabile che la politica si arrenda all’idea che la lunghezza delle liste d’attesa obblighi le persone a rivolgersi al privato, perché a quel punto chi non ne ha i mezzi subisce una palese discriminazione.
Continuando quindi a far pressione sul governo, a livello territoriale occorre proseguire con decisione sulla creazione di una rete ancor più efficiente tra ospedale e territorio, e di quella tra i vari presidi ospedalieri, e non smettere diinvestire nella medicina di prossimità e nella formazione degli operatori.
Oltre a ciò, va dedicata particolare attenzione alla manutenzione e all’appetibilità delle strutture sanitarie, e incentivare politiche abitative a prezzi calmierati dedicate al personale sanitario, perché possa vivere dignitosamente nei territori in cui deve operare.
Non bisogna poi dimenticare che la salute non è soltanto fisica, ma anche psichica, e anzi le due dimensioni sono strettamente legate: per questo va posta particolare attenzione, come la Regione sta facendo, alle persone fragili anche da questo punto di vista, con politiche sia di prevenzione che di accompagnamento.
Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare: la salute si costruisce anche e prima di tutto attraverso la prevenzione, per poter consentire alle strutture ospedaliere di prendersi cura adeguatamente dei casi più gravi e dei pazienti cornici. Per questo, ragionare di politiche della salute significa uscire dai compartimenti stagni e adottare un approccio globale e multidisciplinare, pensando dunque anche a sviluppare più spazi verdi nelle città, e più interconnessi tra loro, una mobilità sostenibile e in generale occuparsi della qualità di vita al di fuori delle strutture di cura, sia di chi la sanità la fruisce da utente, sia di chi la anima da operatore.
I temi da affrontare sono moltissimi, basti pensare a quello, fondamentale, dei caregiver e del loro ruolo, che dovrà essere sempre più centrale anche dal punto di vista della progettazione dei servizi, così come all’invecchiamento della popolazione, che da qui a pochi anni trasformerà il profilo delle nostre comunità.
Tutti elementi che rimandano a un’esigenza primaria: prenderci cura della nostra sanità pubblica, uno dei patrimoni più importanti che il territorio ha a disposizione.